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21 marzo 2010

Hiram, un processo che fa tremare mezza Italia


Pubblicato su L'isola il 19 febbraio 2010

di Vincenzo Figlioli

Mafia e massoneria, colletti bianchi e clero, faccendieri e infiltrati. C’è un po’ di tutto in uno dei procedimenti giudiziari in corso più complessi degli ultimi anni: il processo “Hiram”.

Un’inchiesta che ha svelato un intreccio di interessi che tra il 2005 e il
2007 ha legato la Sicilia Occidentale alla Corte di Cassazione, attraverso una serie di figure di raccordo e che poco meno di due anni fa ha portato all’arresto di Michele Accomando, Renato De Gregorio, Rodolfo Grancini, Calogero Licata, Guido Peparaio, Calogero Russello, Nicolò Sorrentino e Francesca Surdo, accusati a vario titolo di concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione in atti giudiziari peculato, accesso abusivo ai sistemi informatici giudiziari e rivelazione di segreti d’ufficio. Un ruolo centrale nella vicenda lo ha senz’altro ricoperto il faccendiere umbro Rodolfo Grancini, un avvocato vicino ad ambienti massoni e presidente di uno dei Circoli del Buon Governo di Marcello Dell’Utri. Il suo ruolo era quello di seguire le sorti di una serie di processi in Cassazione, lavorando su alcuni contatti interni alla seconda sezione della Corte per ottenere informazioni riservate. A giovarsene, secondo le accuse, alcuni personaggi ritenuti a vario titolo vicini a Cosa Nostra. E in particolare al capo storico del mandamento di Mazara del Vallo, il boss Mariano Agate. Le intercettazioni raccolte testimoniano frequenti contatti telefonici tra Grancini, gli imprenditori Nicolò Sorrentino (marsalese) e Michele Accomando (mazarese) e l’ex assessore democristiano di Canicattì Calogero Licata. Accomando e Licata, a loro volta, facevano parte delle logge massoniche presenti rispettivamente sul territorio trapanese e agrigentino e legate al Gran Maestro Stefano De Carolis, esponente di primo piano della Serenissima Gran Loggia Unita d’Italia. Oggetto dell’interesse dei tre, come detto, alcuni procedimenti giudiziari, tra cui quelli che riguardavano Giovan Battista Agate e Epifanio Agate e Davide Riserbato, rispettivamente fratello, figlio e figlioccio del capomafia mazarese. Ma Grancini fu chiamato in causa anche per la situazione processuale dell’agrigentino Calogero Russello, già coinvolto nel processo “Alta Mafia” e per quelle di Alberto Sorrentino, figlio adottivo di Nicolò condannato in Appello per estorsione, di Dario Gancitano, genero di Accomando, condannato a otto anni assieme a Epifanio Agate per fatti di criminalità organizzata e traffico internazionale di stupefacenti. Ogni volta che il faccendiere umbro riceveva le puntuali sollecitazioni degli “amici” siciliani, si metteva immediatamente in contatto con il suo compaesano Guido Peparaio, altro personaggio centrale nell’inchiesta. Ausiliario in servizio presso la cancelleria della seconda sezione della Corte, Peparaio aveva il compito di ottenere informazioni riservate sui processi segnalatigli da Grancini. Ed è proprio qui uno dei passaggi più delicati del processo “Hiram”. Perché per il ruolo che ricopriva, è inverosimile ritenere che Peparaio potesse essere in possesso delle password d’accesso all’archivio del Centro Elaborazione Dati degli Uffici della Cassazione. Più logico pensare che qualche funzionario compiacente collaborasse attivamente a questo scambio di informazioni. Un aspetto dell’inchiesta, tuttavia, ancora al centro di approfondimenti. Ciò che è certo è che Peparaio riusciva effettivamente a soddisfare le richieste di Grancini e che poi i due si incontravano, il più delle volte alla Stazione Termini di Roma, per definire gli aspetti economici della loro collaborazione. I siciliani accreditavano infatti un bonifico a Grancini su un conto intestato a un prestanome (Giovanni Bacci), dopo di che l’avvocato versava il pattuito a Peparaio. In cambio, ricevevano l’impegno di quest’ultimo ad agire sui propri contatti per ritardare le udienze attraverso escamotage di vario genere. Un obiettivo che però non sempre fu raggiunto, deludendo talvolta le aspettative dei tre siciliani. In un caso, però, i sodali umbri agirono per conto loro, a prescindere dalle indicazioni che arrivavano da Accomando, Sorrentino e Licata. A rivolgersi a Grancini, tramite l’agente della Polizia di Stato Francesca Surdo, in servizio al Ministero degli Interni, era stato un ginecologo palermitano, Renato De Gregorio, fresco di condanna in secondo grado per violenza sessuale su una paziente di diciannove anni. Il procedimento era al vaglio della quarta sezione della Cassazione. Nonostante qualche difficoltà Peparaio riuscì comunque a entrare in contatto con alcuni funzionari, promettendo loro ingenti somme di denaro in cambio di un impegno a rallentare il processo a carico del professionista palermitano, con il dichiarato obiettivo di arrivare alla prescrizione del reato. In questo inquietante scenario trova spazio anche un alto rappresentante del clero, il gesuita padre Ferruccio Romanin, Rettore della Chiesa romana di Sant’Ignazio di Loyola. Contattato da Grancini per conto dei “siciliani”, il sacerdote scrisse alcune lettere in cui perorava la causa di Dario Gancitano e Epifanio Agate presso diverse autorità giudiziarie. Più che la pietà cristiana, a convincere padre Romanin furono le “donazioni” prontamente ricevute in cambio della sua disponibilità. Tanto da convincerlo a spendere queste generose parole a favore del figlio di Mariano Agate: «Sono rimasto colpito dalla vicenda giudiziaria che ha colpito questo ragazzo e dal profondo dolore di queste sue donne. Mi pregano di scrivere alle Vostre Ill.Signorie per un atto di clemenza e di perdono nei confronti di Agate Epifano. Il ragazzo l’ho conosciuto presso la Chiesa di Sant’Ignazio qui a Roma, dove Epifano era venuto con la fidanzata, per sentire se il loro matrimonio poteva essere celebrato in questa Chiesa…Ho avuto l’impressione che fosse un ragazzo a posto, pieno di vita e pieno di progetti con la sua futura moglie, con una certa venerazione del nostro fondatore Sant’Ignazio…Non voglio essere giudice di nessuno, e del suo operato, ma per quello che ho intuito non penso che si meritasse un trattamento così pesante»), rivolgendo poi una richiesta di «equità e perdono, dandogli un’altra possibilità per alleviare nel perdono e nella clemenza il dolore atroce di una madre e della fidanzata». Uno slancio che probabilmente non sarà stato gradito dalle più alte gerarchie ecclesiastiche, se è vero che padre Romanin è stato successivamente trasferito da Roma in Australia.


Mafia e massoneria, colletti bianchi e clero, faccendieri e infiltrati. C’è un po’ di tutto in uno dei procedimenti giudiziari in corso più complessi degli ultimi anni: il processo “Hiram”. Un’inchiesta che ha svelato un intreccio di interessi che tra il 2005 e il 2007 ha legato la Sicilia Occidentale alla Corte di Cassazione, attraverso una serie di figure di raccordo e che poco meno di due anni fa ha portato all’arresto di Michele Accomando, Renato De Gregorio, Rodolfo Grancini, Calogero Licata, Guido Peparaio, Calogero Russello, Nicolò Sorrentino e Francesca Surdo, accusati a vario titolo di concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione in atti giudiziari peculato, accesso abusivo ai sistemi informatici giudiziari e rivelazione di segreti d’ufficio. Un ruolo centrale nella vicenda lo ha senz’altro ricoperto il faccendiere umbro Rodolfo Grancini, un avvocato vicino ad ambienti massoni e presidente di uno dei Circoli del Buon Governo di Marcello Dell’Utri. Il suo ruolo era quello di seguire le sorti di una serie di processi in Cassazione, lavorando su alcuni contatti interni alla seconda sezione della Corte per ottenere informazioni riservate. A giovarsene, secondo le accuse, alcuni personaggi ritenuti a vario titolo vicini a Cosa Nostra. E in particolare al capo storico del mandamento di Mazara del Vallo, il boss Mariano Agate. Le intercettazioni raccolte testimoniano frequenti contatti telefonici tra Grancini, gli imprenditori Nicolò Sorrentino (marsalese) e Michele Accomando (mazarese) e l’ex assessore democristiano di Canicattì Calogero Licata. Accomando e Licata, a loro volta, facevano parte delle logge massoniche presenti rispettivamente sul territorio trapanese e agrigentino e legate al Gran Maestro Stefano De Carolis, esponente di primo piano della Serenissima Gran Loggia Unita d’Italia. Oggetto dell’interesse dei tre, come detto, alcuni procedimenti giudiziari, tra cui quelli che riguardavano Giovan Battista Agate e Epifanio Agate e Davide Riserbato, rispettivamente fratello, figlio e figlioccio del capomafia mazarese. Ma Grancini fu chiamato in causa anche per la situazione processuale dell’agrigentino Calogero Russello, già coinvolto nel processo “Alta Mafia” e per quelle di Alberto Sorrentino, figlio adottivo di Nicolò condannato in Appello per estorsione, di Dario Gancitano, genero di Accomando, condannato a otto anni assieme a Epifanio Agate per fatti di criminalità organizzata e traffico internazionale di stupefacenti. Ogni volta che il faccendiere umbro riceveva le puntuali sollecitazioni degli “amici” siciliani, si metteva immediatamente in contatto con il suo compaesano Guido Peparaio, altro personaggio centrale nell’inchiesta. Ausiliario in servizio presso la cancelleria della seconda sezione della Corte, Peparaio aveva il compito di ottenere informazioni riservate sui processi segnalatigli da Grancini. Ed è proprio qui uno dei passaggi più delicati del processo “Hiram”. Perché per il ruolo che ricopriva, è inverosimile ritenere che Peparaio potesse essere in possesso delle password d’accesso all’archivio del Centro Elaborazione Dati degli Uffici della Cassazione. Più logico pensare che qualche funzionario compiacente collaborasse attivamente a questo scambio di informazioni. Un aspetto dell’inchiesta, tuttavia, ancora al centro di approfondimenti. Ciò che è certo è che Peparaio riusciva effettivamente a soddisfare le richieste di Grancini e che poi i due si incontravano, il più delle volte alla Stazione Termini di Roma, per definire gli aspetti economici della loro collaborazione. I siciliani accreditavano infatti un bonifico a Grancini su un conto intestato a un prestanome (Giovanni Bacci), dopo di che l’avvocato versava il pattuito a Peparaio. In cambio, ricevevano l’impegno di quest’ultimo ad agire sui propri contatti per ritardare le udienze attraverso escamotage di vario genere. Un obiettivo che però non sempre fu raggiunto, deludendo talvolta le aspettative dei tre siciliani. In un caso, però, i sodali umbri agirono per conto loro, a prescindere dalle indicazioni che arrivavano da Accomando, Sorrentino e Licata. A rivolgersi a Grancini, tramite l’agente della Polizia di Stato Francesca Surdo, in servizio al Ministero degli Interni, era stato un ginecologo palermitano, Renato De Gregorio, fresco di condanna in secondo grado per violenza sessuale su una paziente di diciannove anni. Il procedimento era al vaglio della quarta sezione della Cassazione. Nonostante qualche difficoltà Peparaio riuscì comunque a entrare in contatto con alcuni funzionari, promettendo loro ingenti somme di denaro in cambio di un impegno a rallentare il processo a carico del professionista palermitano, con il dichiarato obiettivo di arrivare alla prescrizione del reato. In questo inquietante scenario trova spazio anche un alto rappresentante del clero, il gesuita padre Ferruccio Romanin, Rettore della Chiesa romana di Sant’Ignazio di Loyola. Contattato da Grancini per conto dei “siciliani”, il sacerdote scrisse alcune lettere in cui perorava la causa di Dario Gancitano e Epifanio Agate presso diverse autorità giudiziarie. Più che la pietà cristiana, a convincere padre Romanin furono le “donazioni” prontamente ricevute in cambio della sua disponibilità. Tanto da convincerlo a spendere queste generose parole a favore del figlio di Mariano Agate: «Sono rimasto colpito dalla vicenda giudiziaria che ha colpito questo ragazzo e dal profondo dolore di queste sue donne. Mi pregano di scrivere alle Vostre Ill.Signorie per un atto di clemenza e di perdono nei confronti di Agate Epifano. Il ragazzo l’ho conosciuto presso la Chiesa di Sant’Ignazio qui a Roma, dove Epifano era venuto con la fidanzata, per sentire se il loro matrimonio poteva essere celebrato in questa Chiesa…Ho avuto l’impressione che fosse un ragazzo a posto, pieno di vita e pieno di progetti con la sua futura moglie, con una certa venerazione del nostro fondatore Sant’Ignazio…Non voglio essere giudice di nessuno, e del suo operato, ma per quello che ho intuito non penso che si meritasse un trattamento così pesante»), rivolgendo poi una richiesta di «equità e perdono, dandogli un’altra possibilità per alleviare nel perdono e nella clemenza il dolore atroce di una madre e della fidanzata». Uno slancio che probabilmente non sarà stato gradito dalle più alte gerarchie ecclesiastiche, se è vero che padre Romanin è stato successivamente trasferito da Roma in Australia.

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