Pubblicato su L'isola il 27 novembre 2009
Intanto, bisogna, chiarire un punto. L’operazione “Dioscuri”, pur avendo colpito le due opposte fazioni si concentra soprattutto sulle estorsioni, tentate e consumate, ad opera del ramo della famiglia Melodia facente capo a Diego. Quest’ultimo solo per “necessità” si sarebbe alleato con Lorenzo Greco senior e i suoi “picciotti” nel tentativo di contendere il controllo del territorio alcamese al fratello, Nicola, che da una lettura complessiva dell’ordinanza appare come il vero reggente del mandamento, il capo della cosca dominante. Lo dimostrerebbe una serie di passaggi dell’ordinanza in cui si evidenzia come il monopolio del racket fosse sostanzialmente in capo al vecchio boss Cola. L’impianto accusatorio, risulterebbe, comunque, leggermente mutato rispetto all’inizio se si tiene conto del fatto che il GIP ha deciso l’annullamento “dell’aggravante di aver favorito Cosa Nostra” per Anna Greco. Risulta quindi di difficile prova il legame strutturale di associazione mafiosa tra gli stiddari (Greco senior e figlia) con la famiglia di Diego Melodia il che risulterebbe coerente con la natura tipica della “Stidda”, quella di essere formata cioè da una costellazione di gruppi tra di loro sostanzialmente autonomi. E a 48 ore dall’operazione sono stati anche concessi gli arresti domiciliari ad Anna Accurso, perché accusata soltanto di ricettazione semplice (reato coperto da indulto), Tommaso Vilardi, e a Cola Melodia per problemi di salute. Dalle indagini risulta che gli imprenditori – nell’ordinanza spuntano i nomi dei titolari di una decine di imprese tra le più importanti per fatturato della provincia – sarebbero stati messi in mezzo alla guerra tra le due famiglie ricevendo da entrambi richieste di estorsione. Di qui la successione degli attentati incendiari, danneggiamenti ed intimidazioni, nonché lo sbandamento degli imprenditori presi dal dubbio se recarsi alla polizia o richiedere aiuto all’altra cosca mafiosa. Cola Melodia avrebbe comunque consigliato agli imprenditori taglieggiati dalla fazione opposta di reagire: “Rativi aiuto, rativi arenzia” avrebbe detto il capomafia di Alcamo secondo quanto si evince da una conversazione del Vallone intercettata dalla polizia. Avvolto nell’ombra rimane, tuttavia, l’altra faccia della luna, cioè la stragrande maggioranza di commercianti e di imprenditori non oggetto della doppia attenzione delle due cosche e che quindi avrebbero pagato senza fiatare.
L’opacità del sistema imprenditoriale. È in questo contesto che emerge uno spaccato inquietante di un certo mondo imprenditoriale locale. Intanto, la figura di Antonino Pedone, imprenditore edile, che è tra gli arrestati dell’operazione perché accusato di essere affiliato a Cosa Nostra. Ma pure per le vittime del pizzo è lecito porsi dei dubbi. A partire dal caso della Auto&Auto, in cui il socio di minoranza, Giuseppe Longo (padre di Salvatore) risulterebbe – si legge nell’ordinanza - essere stato arrestato, insieme al figlio Gaspare come indiziati di aver favorito la latitanza dei noti boss Michele Mercadante e Mariano Asaro, mentre il titolare Salvatore Longo, sarebbe stato “denunciato in stato di irreperibilità per le medesime fattispecie delittuose”. Nelle intercettazioni dell’operazione “Dioscuri”, ma anche dalle lettere anonime rinvenute durante le denuncie, c’è poi una fitta serie di imprenditori che vengono indicati da Greco e Vallone come prestanomi di beni
mobili e immobili appartenenti – a loro dire - in realtà a Cosa Nostra. Si fanno i nomi di Giovanni Crimi amministratore unico della Comas s.r.l. e di Giuseppe Settipani della Settipani Marmi s.r.l.. E per il vero proprietario di tali bene i due “stiddari” (Greco e Vallone) fanno riferimento ad un nome ben preciso, il boss Giuseppe Ferro, il capo mandamento di Alcamo degli anni ’90, allora vicino ai corleonesi, e attualmente collaboratore di giustizia. Un ritornello, questo, che si ripete più volte è che attraversa le diverse inchieste giudiziarie riguardanti il territorio alcamese e che potrebbe far pensare che più di una guerra di mafia si trattasse, invece, di un contenzioso (risolto a colpi di pizzo e tangenti) riguardante un asse ereditario su cui i “legittimi” eredi non si sono messi d’accordo. Diego Melodia avrebbe quindi tentato di recuperare la “legittima” tramite il contributo degli stiddari? Dinamiche analoghe emergono nel caso di Vincenzo Accardo (un processo scaturito da un’ordinanza del 19 ottobre 2006) e in quello dell’imprenditore vinicolo Antonello Cassarà ai quali i mafiosi attribuiscono la qualità di prestanome. Del resto, il sistema è noto, la mafia reinveste il denaro frutto delle attività illecite sia ai fini di riciclaggio che per sfuggire alla confisca dei beni. Ora, è il caso di porsi una domanda: si tratta di vaneggiamenti di una cosca perdente (quella di Diego Melodia e dei Greco) intenta a recuperare potere e alla ricerca estenuante di soldi, di subdoli mezzi per intimidire ulteriormente le proprie vittime, oppure di realtà fattuali che gli organi inquirenti non sono riusciti ancora a provare? Al momento riesce difficile confermare l’una o l’altra ipotesi. Sul caso di Crimi l’ordinanza afferma, comunque, che egli “risulta immune da precedenti di polizia” ed ha escluso qualsiasi “presunto suo coinvolgimento in fatti di criminalità organizzata”. La posizione del Cassarà - che ha denunciato alla DIA di Trapani l’estorsione di Greco e Vallone, conclusasi con la condanna dei due in primo grado -, invece, indagato per fatti, di mafia, è stata archiviata perché il PM non ha ravvisato elementi probatori tali da giustificare un rinvio a giudizio. Anomalo è poi il caso dell’estorsione a Vito Maria Ruvolo socio de
I rapporti tra la mafia e il PD. Ma Filippo di Maria, forestale, 49 anni, indicato dalla polizia come pregiudicato, da vent’anni autista del boss Cola Melodia, sarebbe anche il factotum della villa di Scopello del sen. Nino Papania, e come ha evidenziato l’indagine avrebbe intrattenuto stretti rapporti con la segreteria del senatore e con i suoi collaboratori. I suoi graditi servizi sarebbero stati richiesti durante le primarie del PD tenutesi nell’ottobre del 2005 per la individuazione del candidato premier, nella raccolta delle firme a sostegno del referendum per la modifica della legge elettorale e nelle primarie sempre del 2005 per la presidenza della regione.
Con la politica il cerchio si chiude. I soldi delle mafia reinvestiti in attività “pulite” creano altra ricchezza e assicurano posti di lavoro sui quali è lecito pensare che la mafia si riservi una quota per decidere chi “’mpustari”. I posti di lavoro servono anche per produrre consenso, sociale per l’organizzazione stessa, e politico, perchè il “favore” del lavoro si trasforma, in una terra come la nostra, in obolo obbligatorio da depositare nelle urne elettorali. Il politico, o il partito appoggiato dalla mafia ha quasi la certezza così di essere eletto. Ecco formato un blocco politico e sociale che si ripresenta con poche variazioni da decenni sotto diversa forma, ma sempre con la medesima sostanza. Un sistema, pare, in cui tutto si tiene e che richiederebbe per essere abbattuto non solo un maggiore impegno da parte dello Stato, ma anche un ruolo attivo della politica onesta, e last but not least una rivoluzione culturale della società civile senza la quale ogni risultato delle forze di polizia rischia di rivelarsi effimero e destinato all’insuccesso.
L’attentato al comune di Alcamo. L’ordinanza non ci dice, tuttavia, dove siano andati a finire i voti dei mafiosi durante le ultime elezioni. Il voto della cosca alcamese alle primarie del PD non esclude che alle elezioni vere e proprie questi siano stati dirottati altrove. E se così, dove? Verso quali partiti? Per ora la domanda rimane senza risposta. Su un altro quesito una mezza risposta – e tale rimane in assenza di ulteriori elementi probatori - i magistrati hanno provato a darla: l’attentato incendiario al comune di Alcamo. La notte tra il 20 e il 21 giugno del 2004 saltano in aria gli uffici dello sviluppo economico di Alcamo, la palazzina viene sventrata e i soffitti crollano per l’esplosione di una bombola di gas sapientemente utilizzata come ordigno esplosivo. Nel descrivere le capacità incendiarie del Vallone, infatti, le indagini della polizia giudiziaria hanno rilevato che l’attentato al comune di Alcamo si era svolto “con modalità esattamente identiche a quelle che il Vallone aveva minuziosamente rappresentato al Greco” nel corso di una conversazione. “A tal proposito, la polizia giudiziaria ha segnalato che il Vallone, all’epoca, aveva in corso con il Comune di Alcamo un contenzioso relativo ad un esproprio di alcuni terreni che il Vallone stesso aveva subito, per lavori di ampliamento del cimitero”. Andando ancora indietro nel tempo, nel maggio del 2002 il teatro Euro veniva devastato da un incendio. Un altro inquietante episodio che allarmò la comunità alcamese e sulla cui origine non c’è stata, né pare ci sarà in futuro, neanche una mezza risposta.
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