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20 marzo 2010

I Georgofili e i Ferro: A Firenze le bombe parlavano trapanese

di Giuseppe Pipitone
Nella notte tra il 26 e 27 maggio 1993 un Fiat Fiorino imbottito d’esplosivo, viene fatto deflagrare nei pressi della storica Torre dei Pulci, tra gli Uffizi e l’Arno, sede dell’Accademia dei Georgofili. Nell’esplosione perdono la vita 5 persone:Dario Capolicchio, Angela Fiume,e Fabrizio Nencioni con le figliolette Nadia, di 9 anni e Caterina, che ha soltanto 50 giorni; 48 persone rimangono ferite. La Galleria degli Uffizi viene danneggiata, con conseguente deterioramento di molte opere d’arte, che in certi casi vengono totalmente distrutte. Quello di Firenze, è il primo vero attentato dovuto all’inasprimento della lotta tra lo Stato e Cosa Nostra. Dopo verranno quelli di Roma (San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro) e di Milano (via Palestro). Azioni stragiste che attentano all’incolumità dei civili, meglio se del nord dove la mafia appare lontanissima, e meglio ancora se nel frattempo si riesce a danneggiare anche il patrimonio artistico italiano. Il fine ultimo è costringere lo Stato ad una trattativa. Il nuovo regime di 41 bis per i detenuti mafiosi è il segnale che le istituzioni con la mafia, vogliono farla finita. Ma i corleonesi di Totò Riina sanno bene come farsi sentire. L’idea delle stragi “in continente” sembra sia venuta alla stesso Luchino Bagarella, che a quanto si dice, ad un summit convocato per l’occasione, buttò lì: “come vi sentireste se un giorno vi alzate e non c’è più la torre di Pisa?” L’idea di Luchino, come si vedrà, fu messa in pratica presto. Firenze, la città dell’arte per antonomasia, e la prima meta scelta per far tremare lo Stato. Ma per un attentato di quelle dimensioni occorrono mezzi ingenti. L’esplosivo non è un problema. Sono tempi in cui i giudici e gli “sbirri” saltano in aria ogni due giorni. Ma un appoggio in loco, lassù in Toscana, ambiente nuovo per molti uomini d’onore, faciliterebbe molto le cose. Caso vuole che a Prato, a pochi chilometri da Firenze, abiti Antonio Messana, cognato del boss di Alcamo Giuseppe Ferro. A interessarsi alla vicenda, per ordini che vengono direttamente da Matteo Messina Denaro e da Salvatore Brusca, ai tempi latitante in zona, è il capo della famiglia di Castellammare, Gioacchino Calabrò, intimo amico del Ferro. Il carrozziere castellammarese spedisce in Toscana Vincenzo Ferro, il figlio di Giuseppe, che in quel periodo è detenuto. Vincenzo Ferro, è un ragazzo per bene. Studia medicina e fino ad allora ha visto la mafia da fuori, da lontano, soltanto quando accompagnava il padre a qualche riunione (“ero l’unico figlio maschio” dichiarerà in seguito). Sa però che a Calabrò non si può rifiutare nulla. All’inizio i sopralluoghi in Toscana non vanno bene. Lo zio di Vincenzo di quei tipi in casa sua non ne vuole avere. Poi però dopo l’insistenza dello stesso Calabrò, che si è consultato con lo stesso Peppe Ferro, e dopo che Messina Denaro è stato messo incredibilmente alla porta, Messana si convince. A patto che Vincenzo sia presente in casa sua durante tutta la permanenza dei tipi venuti dal sud. E’ così che Vincenzo, dopo pochi giorni dalla scarcerazione del padre, si trova coinvolto, non si sa quanto consapevolmente, in una vicenda, di cui a quanto ha dichiarato, non immaginava nulla. I tipi che si sono installati a casa dello zio sono boss di primo piano, Gaspare Spatuzza, Giuseppe Barranca, Cosimo Lo Nigro e Francesco Giuliano: sono loro gli esecutori materiali della strage di via dei Georgofili. Di tutte le vicende che si compiono in quei giorni di fine maggio Vincenzo Ferro ha solo ricostruzioni parziali. Ricollega il tutto solo dopo essere rientrato in Sicilia ed avere appreso la notizia dai tg: “ si presentarono con un Fiorino e dopo averlo messo nel garage di mio zio, dissero a tutti che nessuno doveva entrare lì dentro per il resto della giornata. Tra l’altro vicino il Fiorino notai due involucri di forma rotonda, scotchati, non so, con un diametro di 40, 50 centimetri,” Lo stesso Fiorino che dopo poche ore esploderà in pieno centro a Firenze, stroncando cinque vite Ad informare Vincenzo che il lavoro da sbrigare a Firenze dagli “amici degli amici” era la strage di via dei Georgofili, è il padre Giuseppe Ferro, informato dei fatti dagli ideatori in persona: Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca. Ha conoscenze altolocate Peppe Ferro, del resto dopo l’eliminazione di Vincenzo Milazzo, a cui ha anche parzialmente preso parte, è lui il capo mandamento di Alcamo. Dopo Firenze Vincenzo continua ad accompagnare il padre agli incontri con gli “amici”. In queste occasioni entra in contatto con Messina Denaro, con Bagarella, con i Graviano. Poi nel 1996 tutto finisce. Viene arrestato per associazione a delinquere di stampo mafioso. Il padre è già in carcere ad attenderlo. Ma dopo l’accusa di aver partecipato attivamente alla strage di Firenze, Vincenzo crolla. Chiede di parlare col procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e si pente. Il padre all’inizio non vuole crederci. Per lui il figlio era estraneo a tutto. Ma alla fine dopo che Massimo Russo lo informa dei fatti si pente anche lui . Un raro caso del padre che segue le orme del figlio, dopo che il figlio aveva quasi per caso seguito quelle del padre. Nel frattempo la strategia del terrore varata da Cosa Nostra è finita da un pezzo, per la precisione dopo l’arresto di Totò Riina. Si è portata dietro centinaia di morti (di cui dieci nelle stragi di Firenze e Milano), e svariati feriti. Ha lasciato di contro un infinito dibattito sulla presunta trattativa tra lo Stato e la Mafia, e una copia sbiadita, dai ricordi e dal tempo, del famoso “papello”. Ma è evidente, quanto qualsiasi discussione in merito, soprattutto se affrontata in maniera puramente mediale, possa suonare superflua, quando Caterina Nencioni ha trovato la morte a soli 50 giorni di vita, soltanto perché Luchino Bagarella voleva togliere la Torre di Pisa agli italiani.

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